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Palazzo Diedo

PALAZZO DIEDO
La famiglia Diedo – L’architetto – Interno e decori – Utilizzo nel tempo

La sede del Tribunale di sorveglianza di Venezia è stata, fino al 26 aprile 2012, Palazzo Diedo a Santa Fosca, costruzione settecentesca al nel cuore del sestiere di Cannaregio, al civico 2386.
Si trova in una posizione caratteristica, poiché occupa quasi interamente una piccola insula veneziana: è infatti circondato dal Rio di Santa Fosca, dal Rio Grimani e dal Rio del Trapolin, e con il Rio della Maddalena che si allunga proprio davanti al portone frontale. La facciata, a due piani nobili con sette alte finestre ciascuno, risulta perciò ben visibile dal ponte di San’Antonio, poco prima di campo Santa Fosca, incorniciata da edifici minori che ne fanno risaltare l’eleganza e l’equilibrio.
La famiglia Diedo risiedeva nel luogo almeno dal Cinquecento, in una abitazione non prestigiosa, e all’inizio del Settecento nobilhomo Nicola affidò il progetto di un nuovo palazzo a Andrea Tirali, architetto allora alla moda in città per il suo allontanarsi dalle forme barocche e rivisitare le tipologie palladiane.
Si racconta che i Diedo avessero chiesto a Tirali un palazzo più alto di quello al di là del rio, appartenente a Francesco Grimani, del quale resta traccia in antiche stampe sebbene sia stato demolito nel 1828: si può quindi rilevare che l’architetto accontentò i suoi committenti. Restano tracce, peraltro, anche delle ritorsioni che egli subì da parte della potente famiglia vicina, ferita nell’orgoglio.

La famiglia Diedo
Giunta a Venezia da Altino attorno nel 790, la casata dei Diedo ha dato alla Serenissima capitani da mar, condottieri, vescovi, un celebre architetto.
Se ne trova lo stemma araldico nei documenti cittadini del XII secolo ma ottennero fama e onori particolarmente nel XV secolo. Nel 1431, infatti, Antonio guerreggiò contro i genovesi e difese Costantinopoli; nel 1453 Alvise, caduta Costantinopoli, portò in salvo le navi veneziane che vi erano in porto forzando il blocco del Bosforo; nel 1482 Pietro, figlio di Alvise, sconfisse in Romagna per conto di papa Sisto IV le truppe del duca di Calabria.
Giuseppe Tassini, nelle Curiosità veneziane, racconta che un altro figlio di Alvise, Vittore, rimase a Costantinopoli ostaggio dei Turchi. Signorile nei modi e ottimo suonatore di liuto, riuscì a conquistare la simpatia del sultano cosicché, complice un favorevole periodo di relazioni turco-veneziane, ottenne nel 1480 di tornare temporaneamente in patria: accolto all’arrivo da un gran numero di imbarcazioni e da grandi onori, non resse alla gioia e morì tra le braccia dei suoi cari.
Troviamo un Diedo, Vincenzo, "capitanio" di Padova nel 1555, prima che papa Paolo IV lo nominasse, nel 1556, patriarca di Venezia, carica che mantenne fino al 1560. Una Diedo, Elena, andò in sposa a Girolamo Priuli, lasciandolo però vedovo prima che, nel 1559, assurgesse al dogado. Nel 1580 monsignor Girolamo Diedo divenne il primo vescovo di Crema lasciando la carica quattro anni dopo, causa malattia, al nipote Gian Giacomo, che la mantenne fino al 1616.
Nel Settecento si distinguono il senatore Giacomo Diedo, storico, autore della monumentale Storia della Repubblica di Venezia dalla sua fondazione al MDCCXLVII, in 15 volumi; Agostino Diedo, ambasciatore; Angelo Diedo, capitano; e Antonio Diedo, architetto neoclassico osservante, autore di numerosi scritti di architettura, docente e segretario dell’Accademia di Belle arti, il quale – racconta Elena Bassi nei Palazzi di Venezia – era nato a palazzo Diedo ma se ne vergognava, considerandolo pieno di difetti e non rispettoso delle canoniche regole.
A Venezia, altri palazzi sono appartenuti, o sono stati abitati, dai Diedo, come quello in Campiello del Meloni, a San Polo, risalente al Trecento e ricostruito nel 1591 “ex legato D. Francisci Dedo”, come certifica l’iscrizione marmorea; come palazzo Emo-Diedo, davanti alla stazione ferroviaria, con il caratteristico timpano palladiano; come il palazzo Diedo-Dolfin-Moro-Barbini con facciata lombardesca sul Canal Grande a Dorsoduro, vicino a Ca’ Rezzonico, oggi sede della Direzione provinciale del Tesoro.
I Diedo inoltre, come tutte le grandi casate veneziane, avevano possedimenti in campagna: ne restano testimonianza tre ville che tutt’ora ne portano il nome a Prozzolo, Breganze e Rosà.

L’architetto
Andrea Tirali (Venezia, 1657 – Monselice, 1737) iniziò come muratore e crebbe professionalmente al Magistrato alle acque di Venezia, dove divenne viceproto (suo il ponte dei Tre archi a Cannaregio, del 1688) e poi proto.
Quindi progettò e costruì edifici religiosi e civili, dimostrando di padroneggiare stili diversi: suoi i disegni delle facciate della chiesa di San Nicolò di Tolentino (1706), con l’imponente pronao, e della chiesa di San Vidal, di chiara ispirazione palladiana; suoi anche, nella chiesa di San Giovanni e Paolo, il Mausoleo della famiglia dogale dei Valier, grandiosa composizione barocca (1708), e la Cappella di San Domenico, o del Sacramento.
La famiglia Farsetti gli affidò la costruzione dello scalone a due rampe in quello che oggi è il municipio di Venezia; la famiglia Sagredo la ristrutturazione e lo scalone del palazzo a Santa Sofia; la famiglia Priuli l’ampliamento e la nuova facciata del palazzo su Rio di Cannaregio, forse il lavoro più significativo di Tirali, definito da Guido Perocco “semplice, dritto, quasi protomoderno” (il palazzo fu poi acquistato da Girolamo Manfrin, il fondatore dell’industria del tabacco a Venezia, e in seguito dalla famiglia Venier); la famiglia Emo la ricostruzione del palazzo davanti a Santa Lucia, caratterizzato dal grande timpano sopra la trifora centrale (attribuzione sostenuta da Elena Bassi, nel suo Architettura del Sei e Settecento a Venezia, ma poco documentata).
Fuori Venezia, si ricordano il progetto della chiesa e del monastero di Santa Maria di San Vito a Pellestrina (1723) e la ricostruzione della chiesa della Trinità (1703), a Chioggia, dove gli viene attribuito anche Palazzo Grassi, a lungo ospedale cittadino e oggi sede del corso di biologia marina dell’Università di Padova.
A testimonianza di un’attività intensa e varia, a Venezia e nelle vicinanze, vi sono numerose altre attribuzioni: tra queste, nel Palazzo Ducale, l’arco trionfale in onore del doge Francesco Morosini, il Peloponnesiaco, che incornicia il portale della Sala dello Scrutinio; la Scuola dell’Angelo custode, ai Santi Apostoli, oggi chiesa evangelica tedesca; il complesso edilizio di Villa Widmann Seriman Foscari Rezzonico, a Mira; villa Vendramin a Fiesso Umbertiano. 
Noto agli appassionati di architettura e storia veneziana, Tirali non è conosciuto come altri grandi architetti suoi contemporanei. Eppure è intervenuto in modo significativo nel cuore stesso della città, Piazza San Marco, sostituendo tra il 1723 e il 1735 la vecchia pavimentazione in mattoni disposti a spina di pesce con nuovi masegni di trachite euganea e lastre di marmo di Carrara in elegante – ma "meno calda e domestica", nota Elena Bassi - composizione geometrica. Nel contempo mise mano anche alla Piazzetta davanti Palazzo Ducale e alla Piazzetta dei leoncini: come un moderno designer urbano – così lo presenta Perocco – disegnò la vera da pozzo e studiò i dettagli, dai tombini per il deflusso dell’acqua piovana alle casselle per i rifiuti.
Un’attenzione al pratico quasi razionalista, che gli derivava dalle sue origini di muratore, dalle esperienze nei consolidamenti (suoi anche alcuni interventi strutturali su opere murarie e parti lignee della basilica di San Marco, eseguiti dopo la nomina, nel 1721, a proto alle Procuratie de Supra) e dai legami con il Magistrato alle acque: nel 1726 divenne Soprastante alle opere straordinarie ai Lidi e, in tale veste, ideò le imponenti difese dei murazzi, una diga in pietra di tre chilometri tra mare e laguna a Pellestrina, in sostituzione del costosissimo e non più affidabile sistema di sbarramenti con pali di legno.
Di lui parlano le opere e gli storici ma anche le cronache del tempo: se ne criticava il pessimo temperamento e – come riporta ancora Elena Bassi – si diceva che non pagasse gli operai, cercasse protezioni, fosse borioso e avaro.

Il palazzo: interno e decori
Il palazzo prese forma nel decennio tra il 1710 e il 1720. La parte posteriore sul Rio del Trapolin, oltre il cortile, è incompleta.
L’atrio si sviluppa su una pianta quadrata per dare risalto ai quattro ingressi, anche grazie a due timpani con sculture e colonne, attualmente murate. Aspetto e proporzioni eleganti che però non si possono cogliere poiché vi è stata ricavata, mediante la collocazione di pannelli prefabbricati, una sala per le udienze del Tribunale di sorveglianza ed è stata posta una pavimentazione più elevata per ovviare al fenomeno dell’acqua alta.
La grande scala è situata lateralmente e raggiunge con tre rampe (due di lato e una sopra un vano centrale) il primo piano nobile. Una seconda scala di dimensioni minori, sul lato opposto, collega tutti i piani del palazzo.
All’interno mantiene la tradizionale ripartizione veneziana: entrambi i piani nobili hanno il lungo portego centrale dal quale si accede alle stanze laterali, e tre grandi aperture sulle facciate. Tradizionali e ben disposti anche i mezzanini.
Interessanti i ricchi decori dei soffitti del primo piano nobile, con tinte talvolta vivaci, talaltra delicate: grandi figure allegoriche affrescate, cornici con motivi floreali colorati o animali mitologici, scene in sequenza a bassorilievo con putti e amorini in delicati atteggiamenti di seduzione, stucchi policromi, effetti architetturali prospettici. I decori obbediscono alla moda del tempo: nel Settecento a Venezia operavano numerosi artisti in grado di realizzare elaborate pitture di interni, tanto da poterne parlare come di una “scuola dei frescanti”, con Tiepolo capostipite.
Particolare attenzione, vista la destinazione del palazzo a Tribunale, merita un’ allegoria della Giustizia, vicina a quelle della Libertà e dell’Abbondanza, affrescate sul soffitto di una stanza frontale, adibita a uffici per i magistrati. I dipinti sulle pareti del grande portego centrale, o quanto ne restava, sono stati staccati o coperti: se ne intravedono tracce. Leggibili le cornici, affrescate a effetto prospettico.
Nel secondo piano nobile è decorato soltanto il portego con capricci, ovvero paesaggi immaginari, monocromi.
Anche i due piani ammezzati sono stati decorati con stucchi monocromi o lievemente colorati: nelle stanze di quello rivolto a est cornici a motivi floreali e medaglioni con volti femminili; nell’altro, la stanza frontale mostra un ricco bassorilievo raffigurante Cerere, dea delle messi, sul carro trainato da due draghi alati, mentre la stanza sul retro è dedicata a divinità mitologiche.
All’esterno, sulla chiave di volta del portone principale un comune mascherone, baffuto e sorridente, in segno di benvenuto. Sopra il portone laterale, invece, un curioso piccolo mascherone con barba e ali di pipistrello, che sembra vigilare su chi entra in casa e sulla stretta calle Diedo, cercando di far paura ai malintenzionati. (Collegamento per visitare la Galleria fotografica)

Utilizzo nel tempo
Il Comune di Venezia acquistò palazzo Diedo nel 1888. Vi trovarono ospitalità la società di ginnastica “Costantino Reyer”, che nell’androne al piano terreno allestì una palestra; al primo piano l’istituto Enrico Dandolo; al secondo il Monte di Pietà. Quindi vi fu trasferita da palazzo Labia la scuola elementare di San Geremia, che occupò pian piano l’intero edificio. Nel 1909 – annota il Cd-Rom Dietro la lavagna, del Comune di Venezia – vi erano 1030 alunni disposti in 20 aule, che non rispondevano a adeguate condizioni didattiche e igieniche.
Nella palestra facevano ginnastica i bambini della scuola elementare, i ragazzi dell’istituto tecnico “Caboto” e, più tardi, gli atleti della “Reyer” fino a quando la società sportiva, nel 1914, ottenne di utilizzare la Scuola nuova della Misericordia.
Generazioni di veneziani di Cannaregio hanno imparato a leggere, scrivere e far di conto nelle alule di palazzo Diedo fino al 1989 quando fu assegnato al Ministero della giustizia che vi collocò la Pretura e Procura circondariale e gli Uffici per le indagini preliminari. “Non vi era nulla – ricorda l’ex procuratore Ennio Fortuna – e mi feci prestare le macchine per scrivere dalla vicina casa d’aste Semenzato”. Nel 1993 il palazzo venne assegnato al Tribunale di sorveglianza.
Le discrete condizioni strutturali e funzionali dell'edificio ne hanno consentito l’utilizzo per uffici, anche grazie ai lavori di manutenzione ordinaria effettuati dal Comune di Venezia. Gli inevitabili rimaneggiamenti nel tempo non ne hanno modificato sostanzialmente la disposizione degli spazi interni, e anche laddove si sono effettuate modifiche, come nell’atrio, si tratta di interventi reversibili. Più problematiche le condizioni delle parti decorate.
Il 26 aprile 2012 il Tribunale di sorveglianza e l'Ufficio di sorveglianza si sono trasferiti nel nuovo edificio d'angolo della Cittadella della giustizia (l’ex Manifattura tabacchi a Piazzale Roma).
Palazzo Diedo è così tornato nelle disponibilità del Comune di Venezia che l’ha già conferito, assieme ad altri edifici in prevalenza non residenziali e spesso di pregio, al fondo immobiliare "Città di Venezia" (costituito dal Comune stesso e affidato in gestione alla società Est Capital SGR) che sta proponendolo a possibili acquirenti.

m.p.
maggio 2012

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Bibliografia

Elena Bassi, Palazzi di Venezia, La Stamperia di Venezia editrice, Venezia, 1976.
Elena Bassi, Architettura del Sei e Settecento a Venezia, Filippi Editore, Venezia, Ristampa anastatica 1980.
Giulio Lorenzetti, Venezia e il suo estuario, Lint, Trieste, 1926.
Guido Perocco, Antonio Salvadori, Civiltà di Venezia, La Stamperia di Venezia editrice, Venezia, 1976.
Giuseppe Tassini, Curiosità veneziane, Filippi editore, Venezia, 1863.

“Dietro la lavagna – Generazioni a scuola a Venezia e a Mestre, 1866-1977”, Cd-Rom realizzato dall’Assessorato alla pubblica istruzione del Comune di Venezia e dall’Istituto veneziano per la storia della resistenza e della società contemporanea, consultabile nel sito www.comune.venezia.it /informa scuola.

Roberta de Rossi, “Il pg Ennio Fortuna in pensione ‘Libertà dei giudici in pericolo’”, La Nuova di Venezia, 29 gennaio 2009, pag. 18, cronaca di Venezia.
Riproduciamo il brano dell’articolo in cui si riportano i ricordi di Ennio Fortuna sul periodo in cui la Procura circondariale venne trasferita a palazzo Diedo.
«L’esperienza più esaltante è stata quella alla Procura circondariale», ricorda Fortuna, «abbiamo aperto un ufficio in un’ex scuola dove non c’era nulla: mi feci prestare le macchine da scrivere da Semenzato, che alla fine non le volle neppure indietro tanto erano vecchie. La fortuna fu che al ministero, incuranti del fatto che a Venezia c’è l’acqua, mi assegnarono 5 autisti d’auto: li misi tutti a lavorare al registro generale, anche se all’inizio scrivevamo i reati su alcuni quadernoni che comprai a Mestre, perché non avevamo neppure i libri del ministero. Sei mesi dopo, tutto funzionava perfettamente: fummo i primi ad informatizzare i fascicoli e ad introdurre l’udienza di comparizione».

 

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